Provate a ricordare un episodio particolare del vostro
passato immaginando di riviverlo in più fasi della vostra vita: come lo avreste
vissuto, cosa avreste pensato, detto, fatto, come avreste reagito in base all’età
che avreste avuto. Questo e tanto altro è The Big Kahuna.
Il film, prodotto nel 1999, è al momento il figlio unico
del regista John Swanbeck, che in collaborazione con lo scrittore Roger Rueff,
decide si adattare una delle sue opere teatrali, Hospitality Suite, in una
pellicola cinematografica.
La struttura del film è molto semplice: tre agenti
vendita di una società in fallimento che si occupa di lubrificanti industriali,
si ritrovano all’interno di una suite di un albergo di Wichita, in Kansas, allo
scopo di conquistare un grosso cliente che avrebbe risollevato le loro sorti e
quelle dell’intera azienda. I tre uomini, Phil, Larry e Bob e pochi metri
quadrati di una stanza fanno da scena a (quasi) tutto il film. Forse da alcuni
punti di vista potrebbe sembrare noioso, ma le riprese ben congegnate e la
forza dei dialoghi fanno scorrere piacevolmente il tempo tra il desiderio di
scoprire se, alla fine, i tre ambasciatori conquisteranno i favori del cliente
e la curiosità di vedere come tre persone dal carattere completamente diverso
riusciranno a interagire tra loro.
Tre facce della
stessa medaglia
Volendo dare una visione d’insieme al film, possiamo dire
che The Big Kahuna vuole mostrare l’uomo che si guarda, tra i progetti e i
ricordi, in fasi diverse della sua vita. C’è Phil, l’anziano (relativamente,
perché ha 52 anni), un uomo stanco – come lui stesso afferma – del lavoro e
della vita; è il prodotto di tutti gli eventi che lo hanno coinvolto. Parla
poco e non impone mai il suo essere: la sua vera lingua è fatta di sguardi, dei
quali è difficile fraintendere il significato. Larry è la via di mezzo, sia per
l’età (è sulla quarantina) che per anzianità di lavoro, è pimpante e desideroso
di fare carriera per raggiungere la vetta nel suo mestiere; instancabile e filosofico,
acre e invadente fino allo sfinimento, mostra tutto se stesso nella convinzione
di essere sempre nel giusto e nel desiderio di portare gli altri a una visione
comune delle cose (la sua). Infine c’è Bob, la giovane “matricola”, che fa
compagnia a Phil e Larry solo per abbellire l’immagine della società. Insipido
fino al midollo, è combattuto tra le speranze – che contraddistinguono tutti i
giovani – e le paure; il suo unico punto di forza è la fede, che però lo rende
schiavo dei suoi stessi principi, insieme ai desideri e alle paure,
rinchiudendolo in un pallido guscio dal quale non vuole uscire.
Scopo del regista è mostrarci due figure molto
autorevoli, quali Phil e Larry, carismatici negli sguardi e nelle parole, che
contrastano con le poche immobili espressioni di Bob ma non gli negano la
possibilità di esprimersi e di evolversi nel tempo trascorso insieme. Un
contrasto che lascia lo spettatore nell’attesa di scoprire se mai gli equilibri
creati si sconvolgeranno mai.
I tre protagonisti sono la rappresentazione caricaturale
dell’enigma della sfinge, l’animale con quattro, due e tre zampe, il vero
mostro, l’uomo che sembra non raggiungere mai la felicità e cade vittima delle
sue imperfezioni a tutte le età.
Le tre stagioni dell’uomo dialogano tra loro, insieme e
in coppia; la poca trama verticale dà spazio a tutti i personaggi di
confrontarsi vis a vis, come un nonno
o un padre che, guardando la propria progenie, rivive se stesso in giovane età
e come un bambino che, davanti a uno specchio, si immagina già grande.