Categorie

lunedì 26 febbraio 2018

The Big Kahuna - Recensione


Provate a ricordare un episodio particolare del vostro passato immaginando di riviverlo in più fasi della vostra vita: come lo avreste vissuto, cosa avreste pensato, detto, fatto, come avreste reagito in base all’età che avreste avuto. Questo e tanto altro è The Big Kahuna.
Il film, prodotto nel 1999, è al momento il figlio unico del regista John Swanbeck, che in collaborazione con lo scrittore Roger Rueff, decide si adattare una delle sue opere teatrali, Hospitality Suite, in una pellicola cinematografica.


La struttura del film è molto semplice: tre agenti vendita di una società in fallimento che si occupa di lubrificanti industriali, si ritrovano all’interno di una suite di un albergo di Wichita, in Kansas, allo scopo di conquistare un grosso cliente che avrebbe risollevato le loro sorti e quelle dell’intera azienda. I tre uomini, Phil, Larry e Bob e pochi metri quadrati di una stanza fanno da scena a (quasi) tutto il film. Forse da alcuni punti di vista potrebbe sembrare noioso, ma le riprese ben congegnate e la forza dei dialoghi fanno scorrere piacevolmente il tempo tra il desiderio di scoprire se, alla fine, i tre ambasciatori conquisteranno i favori del cliente e la curiosità di vedere come tre persone dal carattere completamente diverso riusciranno a interagire tra loro.

Tre facce della stessa medaglia

Volendo dare una visione d’insieme al film, possiamo dire che The Big Kahuna vuole mostrare l’uomo che si guarda, tra i progetti e i ricordi, in fasi diverse della sua vita. C’è Phil, l’anziano (relativamente, perché ha 52 anni), un uomo stanco – come lui stesso afferma – del lavoro e della vita; è il prodotto di tutti gli eventi che lo hanno coinvolto. Parla poco e non impone mai il suo essere: la sua vera lingua è fatta di sguardi, dei quali è difficile fraintendere il significato. Larry è la via di mezzo, sia per l’età (è sulla quarantina) che per anzianità di lavoro, è pimpante e desideroso di fare carriera per raggiungere la vetta nel suo mestiere; instancabile e filosofico, acre e invadente fino allo sfinimento, mostra tutto se stesso nella convinzione di essere sempre nel giusto e nel desiderio di portare gli altri a una visione comune delle cose (la sua). Infine c’è Bob, la giovane “matricola”, che fa compagnia a Phil e Larry solo per abbellire l’immagine della società. Insipido fino al midollo, è combattuto tra le speranze – che contraddistinguono tutti i giovani – e le paure; il suo unico punto di forza è la fede, che però lo rende schiavo dei suoi stessi principi, insieme ai desideri e alle paure, rinchiudendolo in un pallido guscio dal quale non vuole uscire.
Scopo del regista è mostrarci due figure molto autorevoli, quali Phil e Larry, carismatici negli sguardi e nelle parole, che contrastano con le poche immobili espressioni di Bob ma non gli negano la possibilità di esprimersi e di evolversi nel tempo trascorso insieme. Un contrasto che lascia lo spettatore nell’attesa di scoprire se mai gli equilibri creati si sconvolgeranno mai.
I tre protagonisti sono la rappresentazione caricaturale dell’enigma della sfinge, l’animale con quattro, due e tre zampe, il vero mostro, l’uomo che sembra non raggiungere mai la felicità e cade vittima delle sue imperfezioni a tutte le età.
Le tre stagioni dell’uomo dialogano tra loro, insieme e in coppia; la poca trama verticale dà spazio a tutti i personaggi di confrontarsi vis a vis, come un nonno o un padre che, guardando la propria progenie, rivive se stesso in giovane età e come un bambino che, davanti a uno specchio, si immagina già grande.